Riflessioni

Riflessioni / gennaio 2007

Siam pronti alla morte l’Italia chiamò Mameli e Welby  Le parole che titolano questa pagina sono tratte, come è noto, dall’inno di Goffredo Mameli, eroe del Risorgimento italiano. Dopo un periodo di semi silenzio, da qualche tempo si è tornati a cantare l’inno nazionale, presente anche sui campi di calcio, pur se in modo abbastanza stonato. A ben vedere, c’è nelle parole dell’inno una stonatura forse più evidente di quella semplicemente sonora. Si ricordi infatti la frase “Siam pronti alla morte, l’Italia chiamò”. Si pensi a quanti giovani eroi sono morti nell’Ottocento per liberare l’Italia dal giogo straniero (austriaco, borbonico e vaticano), per rendere l’Italia unita dalle Alpi alle isole maggiori, insomma per fare l’Italia e gli italiani. Quei giovani cantavano davvero parole in cui credevano ed erano disposti a dare la vita – e molti la dettero – per l’Italia. Ma oggi la stessa frase non suona forse un poco retorica, se non del tutto vuota, sulla bocca di giovani atleti che al massimo sono pronti a correre avanti e indietro sul campo di calcio per vincere la partita (e i ricchi premi)? Eppure, quando i nostri beniamini del calcio, cantano quelle parole, li applaudiamo. Un evento recente ha fatto emergere una stonatura ancor più seria. Un italiano medio, un italiano comune, sconosciuto, che si era ammalato di distrofia muscolare da giovanissimo, che per decenni aveva visto il proprio corpo trasformarsi di male in peggio, e che ha trascorso diversi anni immobilizzato, attaccato a una macchina per respirare, gradualmente si è preparato alla morte. Così, quando non ne ha potuto più, ha detto pubblicamente “Italia! Son pronto alla morte!” Che cosa hanno risposto gli italiani a questo connazionale? Molti hanno reagito con indifferenza: è solo una delle tante notizie televisive, non la tragedia di una persona. Altri ne hanno fatto l’oggetto di una discussione politica: dunque non l’agonismo calcistico, ma l’agonismo politico. Altri, ipocriti, hanno negato il funerale “religioso”: la legge ecclesiastica viene prima dell’essere umano. Per fortuna qualcuno ha avuto un poco di pietà e ha tenuto presente la misericordia di Dio. Italiani: popolo di santi, poeti e navigatori. Ma spesso ce ne dimentichiamo. Non è perlomeno strano e non dovrebbe far riflettere che l’unico italiano che in tempi recenti ha proclamato la propria prontezza alla morte sia stato trattato così? Nel secolo appena trascorso ci siamo confrontati con la morte: i milioni di morti della prima e della seconda guerra mondiale, dei campi di concentramento di Hitler, dell’Arcipelago Gulag di Stalin, delle bombe di Hiroshima e Nagasaki, le stragi in Africa. Difficilmente si ascolta un telegiornale senza morti. Poi ci sono i morti finti: quelli dei film western, dei film polizieschi, di Star Trek. Trent’anni fa in una riunione dell’Accademia Americana di Pediatria fu riferito che un ragazzo di quattordici anni dovrebbe aver visto in TV circa 18.000 morti (!). Si deve perciò concludere che la morte non è più un tabù? I sociologi fanno osservare che il massacro della seconda guerra mondiale, col passare del tempo, esercita un’influenza sempre minore; che i resoconti di morti e massacri che giornalmente sentiamo alla radio o in TV ci toccano, ma superficialmente. La morte finta dei film, frutto della massificazione televisiva, più che toccarci, ci ottunde, ci rende insensibili. Non solo, ma gli eroi che nei film uccidono, raramente sono uccisi, per cui possono comunicare a qualcuno la pericolosa illusione della propria immortalità. Così non si arriva né all’esperienza diretta della morte, né alla riflessione su di essa, ma piuttosto alla sua rimozione. In generale, anche per chi non è atleta, per la persona media, giovane o anziana che sia, potrebbe essere salutare tornare a chiedersi: ma davvero noi siamo “pronti alla morte”? E se sul prossimo manifesto listato a lutto ci fosse il nome mio/tuo? Lei ha paura della morte? Un tempo la famiglia era il luogo in cui si sperimentava la morte. Si moriva nel proprio letto, circondati dai sentimenti e dalle preghiere dei propri cari, i quali prendevano parte attiva alla morte dei parenti. Ma oggi quando mai sperimentiamo la morte di un’altra persona in modo da divenire esistenzialmente coscienti della nostra mortalità? Oggi si muore in ospedale, circondati da specialisti, che non possono né devono impegnarsi emozionalmente col morente. Nei paesi più civili vengono somministrati farmaci che permettono di non arrivare a una vera agonia, cioè alla lotta con la morte; più spesso (nei paesi civili) la morte è un addormentarsi sereno che, entro i limiti della legalità, può essere prolungato o accelerato. Poi interviene l’agenzia funebre e, magari, la società di assicurazione. In questa società fondata sulla divisione del lavoro sembra proprio che ognuno sia sostituibile. Il lutto è minimo. La persona morta rimane insostituibile solo per quei pochissimi che gli eramo legati emozionalmente. Per ritrovare il senso della morte si può provare a rispondere a un questionario (Max Frisch, 1966-1971) sui sentimenti, le paure, le speranze che muovono l’uomo: 1) Lei ha paura della morte, e da quale età? 2) Che cosa fa contro tale paura? 3) Lei ha più paura del morire o della morte? (perché pensa in modo materialistico o perché non pensa in modo materialistico); 4) Vorrebbe essere immortale? 5) Ha già pensato qualche volta che deve morire, e che cosa le è venuto in mente: a) quello che deve lasciare? b) la situazione mondiale? c) un paesaggio? d) che tutto era finito? e) quello che senza di lei non verrà mai realizzato? f) il disordine nei cassetti? 6) Vorrebbe sapere che cosa sia la morte? 7) Che cosa la turba ai funerali? 8) Se crede in un regno dei morti (Ade): la tranquillizza l’idea che ci rivedremo tutti nell’eternità, o ha per questo paura della morte? 9) Com’è che i moribondi non piangono mai? Oggi manca un’arte del morire, come c’era invece nel Medioevo. Certo, oggi non si tatta di rigettare il progresso medico e sociale in sé, ma occorre valutare l’uso che ne facciamo: noi rimuoviamo la morte dalla nostra coscienza; evitiamo il confronto razionale con il morire e con la morte; viviamo come se la morte, la mia/tua morte, non esistesse. Non è forse vero che molti vivono e muoiono per se stessi? E come mai il Vangelo dice esattamente il contrario? “Nessuno vive per se stesso, nessuno muore per se stesso; se viviamo, viviamo per il Signore; se moriamo, moriamo per il Signore… noi siamo del Signore” (Romani, 14). L’essere umano, a differenza dell’animale, sa sempre dell’inevitabilità e dell’universalità della morte. Occorre imparare gradualmente a confrontarci spiritualmente con essa. Si potrebbe iniziare, per esempio con una riflessione approfondita sulle parole di Gesù: “Chi crede in me, anche se muore, vive… Chi vive in me e crede in me, non morirà mai” (Giovanni, 11). Gesù è il solo che, grazie alla sua Resurrezione, può dire di avere vita in se stesso (Giovanni 5). Ritrovare il senso della morte e della vita, significa ricominciare da Gesù.

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